Mhttk' blog

sabato, gennaio 02, 2010

2010

 

Bisogna cominciare da qualche parte. Tanta gente fa piani, costruisce interi edifici sopra i sogni. Tutta la vita affonda i suoi pilastri su poderose proiezioni nel futuro. E’ il 2010, sono alle BermudIMG_1717a e gia’ sono Over Budget, e’ la vita che e’ cosi’. Io non ho fatto previsioni perche’ non potevo, non ho fatto piani perche’ non sono capace. Non ho fatto altro che lasciarmi tentare, ed ora sono qui.

Un altro lancio di dado, e’ cosi’ che comincio il decennio.

Buon anno.

martedì, giugno 19, 2007

Cercavo parcheggio


Non è una attività facile. Bisogna trovare un posto, vedere se ci si entra dentro, fare le manovre, trovare gli spicci per il parchimetro e via dicendo.

Immagina poi se non c'entri. O se c'entri e poi non hai le monetine. O se stai mettendo le monetine ed hai chiuso la macchina con le chiavi dentro. E' una cosa che richiede dedizione.

Io dedito non mi ci sono mai sentito. E non trovavo monetine. Quindi alla fine me ne sono rimasto in giro in attesa di parcheggiare la macchina.

E' un cane che si morde la coda. Se uno va in giro in macchina senza monete e poi deve parcheggiare come fa? Io non me la sono proprio sentita. Multe, tassametri, tasse.

Ma che siamo impazziti?
Un'ora di parcheggio costa più che un'ora di carburante a Londra. Non ha proprio senso.

Insomma, alla fine ho parcheggiato la macchina e non ne ho più voluto sapere.

Poi me l'hanno bruciata. Ecco, ora sono proprio senza macchina. Però ora ho le monetine e Federica si sposa.

Qualcosa di positivo doveva pur capitare.

venerdì, agosto 05, 2005

Vorrei cenare a casa

Sono un paio di settimane che sono tornato a Londra. Eccezion fatta per un paio di fortuite circostanze, non sono ancora riuscito a cenare a casa. Ho una manciata di pomodorini pachino che stanno fermentando in frigo, dei british fagiolini che stanno giocando a tresette e lo stracchino, che consumo con avida e vorace fretta quando mi viene fame.


Sono un paio di settimane che mangio a destra e manca. Vorrei prendere un black cab, tornare verso Notting Hill, aprire la porta rossa di casa. Annaffiare l'edera rampicante e salutare il cane che si sta annoiando in giardino. Spostarmi nello studio e accendere il televisore mentre aspetto la cena.
Poi, senza neppure troppe pretese, salire al piano di sopra, aprire la finestra e sedermi sul terrazzo con un bicchiere di Porto o un Passito di Pantelleria, ascoltando un po' di musica. Magari jazz. Ancora, un'oretta più tardi, infilarmi nella vasca da bagno, guardare un po' di televisione da lì prima di uscire di nuovo. Due chiacchiere al pub dietro l'angolo e di nuovo a casa.

Ahh... Alcuni problemi da risolvere. Non ho il cane. Non ho la casa a Notting Hill, non la porta rossa e il rampicante. Nessuna televisione davanti alla vasca e la Living Room della mia attuale casa è ridicola. All'angolo della strada non c'è pub e di porto o passito neppure l'ombra.

Per finire mi manca il maggiordomo.

Porca miseria qui bisogna trovarsi un lavoro. E pure di corsa.

giovedì, luglio 28, 2005

..:: British Grand Prix ::..

Prendere la M1 era fare la cosa giusta per raggiungere donnington castle quella mattina. il caffè non è mai abbastanza quando la sveglia suona verso le sette. è domenica e si è andati a dormire alle cinque, il sabato precedente. Manca quella distanza che i sogni fanno nella notte per traghettare le membra dal consumato scuro notturno alla rinnovata mattina.

Il sole di londra è uno degli astri più timidi dell'universo. sempre nascosto, geloso della sua stanza azzurra, è nascosto da una tenda di nubi da cui di rado fa capolino e da cui, mentre io uscivo dalla stazione di finchley, neppure aveva in mente di uscire.

Passi confusi mi dirigono alla metro. L'uscita da finchley è stata dura. scalini, scalette, barriere e 5 individui aspettanti lì fuori.

forse eravamo pronti a partire.

cerco di riassumere un minimo di etichetta salutando, ma eravamo in ritardo e faccio a tempo a dire ciao a diego, saltare la ringhiera e ritrovarmi nella macchina di manu. sedile posteriore, accanto ad un davide assonnato, un simone malconcio ed un emanuele con il piede destro pesante come l'uranio. eravamo già a 160. direzione nord.

la macchina nera di diego, con la sua targa di3eg0 era la scorta al seguito, fiera come lo sono le macchine con un cavallino sul cofano e con i vetri scuri. lui era in compagnia di silvia.

non per fare il siciliano ma una persona che si perde nella più elementare delle tradizioni sociali, offende. Reiterato tre volte, è guerra. Io non la saluto più. anzi no, la saluto, per sport.

quante miglia o chilometri fossero non l'ho capito, ma in ore tutto si traduceva in circa tre. tre ore, quattro morti di sonno e due palloni nel sedile di dietro. Esistono due rimedi a questo: un tank di caffè come carriaggi oppure una jam session di pettegolezzi. Siccome il caffè era finito, i pettegolezzi fluirono come fanno le nuvole del cielo di londra. Impetuose, incessanti e bastarde. I pettegolezzi, per loro natura, hanno lo stesso valore dei soldi del monopoli di fronte alla banca d'Inghilterra, è chiaro. Ma sono certo che Diego avrebbe apprezzato la compagnia in quella manciata di chilometri se non nell'argomento almeno nel merito. Credo, d'istinto, che la stessa cosa valesse per Silvia. O forse no...

Qualcuno dice che se ci sono tre inglesi in una piazza vuota dopo un po' si incontrano e si mettono in fila. E' nella loro natura. Come a Napoli la pummarola non si può evitare, così in Inghilterra le file. Noi, da paraculi, alla fila siamo allergici e allo svincolo prendiamo la coda meno trafficata, la corsia meno corretta, e la velocità meno opportuna. Con facce vaghe, non furbe. Riusciamo in dieci minuti quello che un sassone farebbe in 20, un celtico in 25 ed uno svedese in 30. Siamo all'ingresso della pista.

Traghettiamo la macchina fino all'ingresso ultimo del circuito, cinture allacciate davanti e occhi a mezz'asta di dietro. Il nostro doganiere è un giovanotto nero con fare da buttafuori. eravamo in quattro: un pass per la macchina, un pass per manu. E gli altri tre? Ah bello! Siccome non stavamo a pettinare le bambole, grazie all'innocenza cherubina di Manu, entriamo delegando alla macchina dietro di noi l'onere dei pass. Una ferrari nera a seguire ha i pass per tutti. Siamo dentro per lavoro, scusa, siamo in ritardo. Cheers. Ed entriamo.

La folla era una turba di motociclisti, pedoni, imbecilli e italiani. Il prato verde smeraldo faceva intuire due cose: a donnington c'è poca luce e tanta acqua.

Il velo pietoso delle attese millenarie, la mancanza di pass, la strada sconnessa e il rally in fuoriserie me li risparmio perchè sono cose che io ho solo sentito dire. Erano quaranta minuti di vento che stavamo aspettando Diego. Abbiamo persino preso un caffè (credo fosse caffè) e delle ciambelline fritte nel frattanto. Diego, niente. Non arrivava. Ogni tanto arrivavano messaggi sul telefono di Simone che spiegavano l'umore dell'aspettante Diego.

Io ero abbastanza incuriosito dall'evento. In fondo non ero mai stato a un gran premio. Una turba indefinita di gente si muoveva da parte a parte del circuito, si spostava, apriva e chiudeva sedie e ombrelli. Un rombo sulla pista irrompe, un suono annunciava i cinque minuti alla partenza.

Ma che figata! Io Davide e Simone ce ne stavamo gironzolanti affianco al rettilineo di partenza mentre Emanuele, ligio, se ne era andato a lavorare. Diego finalmente, arriva. Può darsi che io mi sia acclimatato meglio alla tempra anglosassone perchè quando è arrivato diego, la mia eccitazione era nulla in confronto alla sua. Non gli sfuggiva nulla. Le moto, il circuito, le moto parcheggiate, le tette delle bamboline bionde, l'estasi di essere lì lo aveva reso bambino. Un bambino dentro la casa di babbo natale il 25 dicembre mattina.

E comincia una catinella di pioggia. La temperatura se ne torna a febbraio e quattro fessi, vestiti a primavera e senza un ombrello se ne vanno a zonzo per il parco delimitato dal circuito. Donnington Castle è sotto assedio dalle piogge.

Otteniamo finalmente dei pass per i paddocks. Attraversiamo il cunicolo sottostante la linea di partenza e ci spostiamo dove sono tutti i camion, gli stand e le moto dei team in gara. Sinceramente mi aspettavo qualcosa di più magnificente ma era un po' come andarsene a spasso a Castellammare di Stabia tra i marmittari e i carburatoristi. L'unica eccezione erano forse le scosciate bambine bionde con gli ombrellini del gran premio e due panterone nere immortalate da Simone per le fantasie di Diego. Ovviamente i colori dei paddocks sono ben più esaltanti di Castellammare. Non voglio sembrare negativo a tutti i costi ma con quello che veniva giù il mio livello di esaltazione stava decisamente scemando. Avevo freddo.


Finalmente riappare Silvia e troviamo riparo in uno degli stand di un Team. Derbi, mi pare. Parte la 125 e le moto del team sono in gara. L'asfalto è un lago nero d'acqua e i motociclisti si perdono in acrobazie che portandoli a terra con tutte le moto li riporta anche ai box, da cui, temo, vedranno la gara come l'abbiamo vista noi. Anonimi e senza premio. Arriva un'altra Silvia. Al seguito aveva quello che non più di dieci minuti più tardi potremmo aver definito più vittima che compagno. Le donne in questo sono maestre nel farlo e nel negarlo. Ma questa è una considerazione nel cui merito non vale neppure entrare: è un assioma universale insindacabile come è vero che 2+2 fa sempre quattro.

Le deroghe alla pioggia sconfinano fino alla fine della gara quando il manipolo da noi costituito si ritrova, ora diviso, nei paddock ancora una volta. Simone e Diego sono andati a controllare i potenziali slittamenti della salita d'erba dove stava parcheggiata la macchina mentre io e Davide ci siam presi un po' d'acqua prima di reclamare anche noi un pranzo.

L'attesa per la partenza delle cinquecento ha visto solo un miserevole pranzo, tanta acqua e lo sconforto del freddo. Ma il momento si avvicina. Le 500cc stanno per partire. Si sente il rombo possente che si avvicina. Usciamo dalla mensa. Il rumore si fa sempre più forte. Era solo un apparecchio EasyJet pronto all'atterraggio. Falso allarme.

Due minuti più tardi il rombo vero. Quello fatto da decine di moto pronte. La linea di partenza è piena, le moto sono in linea e l'eccitazione dei piloti si trasferisce alla moltitudine di spettatori. Il numero 46 si ripete con un disequilibrio barbaro: i tifosi di Valentino Rossi sono in una proporzione di 5 a 1 rispetto agli altri. Sono partiti. Siamo su una delle curve ad aspettare l'arrivo della safety car e delle moto al seguito. Giro di ricognizione. Le moto partono.

Che stronzata. Tutto 'sto casino per vedere un'ammucchiata di moto che fanno una curva a 200 all'ora? Sotto la pioggia e al freddo per giunta. Senza sapere i numeri, perdendosi gli accadimenti nelle altre parti del circuito, senza una mezza cronaca e immersi nel roboante rumore di motori da aviogetto messi su due ruote? Che stronzata. Decisamente sì.

Eppure una stronzata così vale sempre la pena farla. E' diverso. Non è starsene davanti al televisore, o accanto ad una radio. Non è starsene con una birra in mano, al pub a guardare le motociclette piccole piccole. No. E' partecipare in un modo che non comprendo ma che senza meno ho apprezzato. E' stare lì, non tanto per dire io c'ero, quanto per fare un passo, altrimenti impossibile tra il mondo della poltrona e quello oltre al plumbeo vetro del televisore. Girarsi in torno, camminare e vedere. Tutti vogliono vedere, tranne Diego. Quando Valentino ha vinto la gara lui, con nemmeno una parola d'avviso schizza via. Forse lo vedremo sul podio con il suo ombrellone ferrari e il sorriso da bambino. Lui interpreta meglio di tutti il mio pensiero. In un certo qual modo, lui ha vinto la gara.

E torniamo a casa, con una coppa invisibile in mano, con un semicappellino giallo in testa e coi pass ancora al collo. Londra ci aspetta.

sabato, aprile 09, 2005

Fiori di zucca

Minal still does not believe that zucchini flowers do exist.

What a shame!

venerdì, novembre 19, 2004

Londra. Ormai è fatta.

Non capita tutti i giorni di cambiare casa, no di certo. E non capita nemmeno a tutti nella vita di cambiare città. Cambiare nazione è, poi, fuori dalla portata dei più, a mia modesta opinione. Questa considerazione confortava in parte quello che si stava materializzando in fatto concreto. Ormai cominciavo a vivere in una nuova città e questa, Londra, sarà casa mia per almeno tutto il prossimo anno. Bisognava abituarsi soltanto all'idea.

Nella prima metà di Ottobre continuavo a occupare la casa di Carlo e di Silvia in attesa ed anche in ricerca della mia prossima, ormai attuale, abitazione. Cercare casa è stata una delle attività più interessanti e noiose che mi fossero capitate, ho girato una dozzina di appartamenti ed ogni volta c'era qualcosa che non andava. Una casa tutto sommato carina, in una zona tranquilla, che costava poco si trovava dalle parti di Edware Road. A quaranta minuti dal centro, a venti minuti dall'università. Impraticabile. Un'altro posto era gagliardo, a Wembley Central, c'era tutto: cameriera due volte a settimana, internet e sky, giardino e living room. Ma la casa faceva un po' schifo e costicchiava non poco. L'appartamento a Russel Square l'ho perso per mezz'ora di tempo e quelli a Notting Hill li ho persi per qualche centinaia di euro in meno. D'altra parte non aveva senso neppure prendere casa così lontano.

Alla fine decido. Prendo una casa a Wembley Park. Dieci minuti dall'università, quindici dal centro, prezzo leggermente sopra il budget ma tutto sommato non male. Degli animali che ho trovato dentro la casa parlerò magari un altro giorno, quando avrò tempo di spiegare che ripongo fiducia sul numero 23. (come se dice a Roma, bucio de c....)

L'aspetto interessante della trasferta è che cominciavo ad ambientarmi. Frequentavo i corsi arrivando inusualmente puntuale ma mancava l'ultimo spunto di organizzazione. Che diavolo faccio il sabato sera?
Cominciavo ad essere il terzo nel triangolo di casa Carlo, ma stavo dalla parte sbagliata del poligono e necessitavo di strategie ben definite per lasciare in santa pace la casa ed i suoi abitanti almeno il sabato sera.

Animato anche dalla convinzione che tutto sommato più tardi si fa una telefonata e peggio è e convinto poi che farla invece troppo presto non è cosa cosciente, arrivo a concludere che i tempi sono maturi. E così chiamo mr. Emanuele Scalera il quale esige il nome per intero sul blog a patto che questo serva per restituire un buon risultato di ricerca su google per tutto il prossimo mesetto.

Emanuele Scalera è quel personaggio di cui accennai qualche mese fa (più di tredici...) ed al quale già mi sono affidato per gonfiare la mia night-life di tanto inutili quanto buffe serate .

Emanuele Scalera (e nominarlo ancora una terza volta dovrebbe bastare per Mr. Google) compiva gli anni in quel mese e doveva festeggiare non si poteva di certo tirare indietro. Cose, queste, che io scopro postume ma che l'intuizione della maturazione dei tempi ha reso la mia telefonata alla circostanza nella stessa maniera con cui s'addice il cacio su maccheroni. Il sabato sera è fatta: appuntamento a Dover Street o giù di lì. Una vietta a ridosso di Piccadilly st., proprio a due passi dal Ritz.

Il nome del locale rimane oscuro: "Capish" è quello che mi arriva dalla cornetta del telefono e suonava proprio come quel capish che Marlon Brando usava intercalando coi fellas nel padrino.

Il gessato quella sera, non me lo sarei messo. Neppure per mr. Scalera.

Intanto bisognava ancora organizzare il venerdì e in sordina finisco all'appuntamento con Emanuele vicino a Ladbroke Grove a ridosso di Portobello, viene in macchina accompagnato da (ora comincia il casino coi nomi) Luca, che è sotto gli effetti permanenti di dosi massicce di cocaina ma non ne fa uso, e di Flavia che lì per lì avevo scambiato per la ragazza di Emanuele.

E che credo che Emanuele abbia scambiato per la sua ragazza pure lui per qualche tempo, ma questa e' un'altra storia e io non mi cimentero' certo a raccontarla.

Il venerdi' finiamo in locale a ridosso del Tamigi, un certo Walkabout o simile dove un'orda di people se ne stava li' a consumare la musica al ritmo di birra e cocktails. Niente male.

Venerdi' me ne torno a casa sobrio.

Sabato mattina mi accorgo che, in realta', mi sbagliavo: non ero sobrio per nulla.

lunedì, ottobre 18, 2004

Week end in salita.

Arrivare la sera in arereoporto è già di per sé scomodo, ma arrivare a Stansted la sera è orribile. Bisogna spendere ancora un'oretta prima di arrivare a Londra e se tutto va bene si vede la prima linea della metropolitana, entro quaranta minuti.
La storia in Inghilterra è la solita: pagare biglietto, fare fila, prendere pullman. All over again, and again and again. A pagare bisogna pagare sennò, multa. La fila se non la fai ti urlano appresso. Ci sono due opzioni per prendersi una libertà e passarla liscia: non pagare, fare la fila, prendere il pullman oppure pagare, fare la fila e prendere il pullman.
La morale è molto semplice. L'unica cosa gratis in Inghilterra è fare il coglione, però, se vuoi puoi pagare prima. Visto che ormai io mi dilettavo in questi paradossali ragionamenti einstaniani il pullman appresta Finchley Road stazione sull'omonima strada, linea Jubilee Line. Scendo.
Pago, faccio la fila, prendo la metro.
Nei tempi d'oro mettevo un gettone nel telefono e dopo 15 minuti arrivava Carlo con il suo bolide (anche se lui dichiarava che gliene servivano solo cinque ce ne metteva sempre 15). Credo che anche per lui sia valsa qualche regola inglese. Evidentemente non ha pagato qualcosa oppure non ha fatto abbastanza file, perciò, la macchina l'ha dovuta riportare in patria.
Ogni volta che si aprono le porte e il "mind the gap" si appresta, un grappolo di persone lascia il vagone, e va via. Passi veloci, stanchi a volte, neri coatti o passi turistici e errabondi. Io scendendo strascicavo i piedi con 30 chili di bagaglio sulle scarpe. Dollis Hill station, mind the gapa. This train terminates at Stanmore. This train terminates at Stanmore, please mind the gap, minf the gap please. Pshhhhh...... le porte si chiudono, la metro parte via verso Stanmore, è quasi mezzanotte. Sono solo alla banchina della metro, il vento soffia, le panchine di ghisa nere sono ancora bagnate dal'ultima pioggia. Io esco.
Sabato mattina dovevo proprio farcela, era fondamentale. Il test di inglese è una sofferenza gratuita, e neppure il mio più spiccato senso masochista poteva trarne alcun accento di piacere. Andava fatto, come vanno prese le pasticche per il tifo quando si parte per il campeggio con i lupetti. Una rottura di c***o, e basta.

In quattro ore abbondanti esco, vado via e torno a casa. Stanco si stress da esame più che altro.
Stasera Silvia festeggia gli anni, Saschia (o come si scrive) pure e ci aggreghiamo in numero per un pub dietro Paddington.

Giulia, Andrea, Eros, Germano, Giampiero, Joe, Saschia (ma va?), erano in compagnia di altre e altre persone. Eravamo in tanti.

Cheers, e s'esce ubriachi (chi più, chi meno, io: entrambi).

Domenica si riposa. E basta.