Mhttk' blog

giovedì, luglio 28, 2005

..:: British Grand Prix ::..

Prendere la M1 era fare la cosa giusta per raggiungere donnington castle quella mattina. il caffè non è mai abbastanza quando la sveglia suona verso le sette. è domenica e si è andati a dormire alle cinque, il sabato precedente. Manca quella distanza che i sogni fanno nella notte per traghettare le membra dal consumato scuro notturno alla rinnovata mattina.

Il sole di londra è uno degli astri più timidi dell'universo. sempre nascosto, geloso della sua stanza azzurra, è nascosto da una tenda di nubi da cui di rado fa capolino e da cui, mentre io uscivo dalla stazione di finchley, neppure aveva in mente di uscire.

Passi confusi mi dirigono alla metro. L'uscita da finchley è stata dura. scalini, scalette, barriere e 5 individui aspettanti lì fuori.

forse eravamo pronti a partire.

cerco di riassumere un minimo di etichetta salutando, ma eravamo in ritardo e faccio a tempo a dire ciao a diego, saltare la ringhiera e ritrovarmi nella macchina di manu. sedile posteriore, accanto ad un davide assonnato, un simone malconcio ed un emanuele con il piede destro pesante come l'uranio. eravamo già a 160. direzione nord.

la macchina nera di diego, con la sua targa di3eg0 era la scorta al seguito, fiera come lo sono le macchine con un cavallino sul cofano e con i vetri scuri. lui era in compagnia di silvia.

non per fare il siciliano ma una persona che si perde nella più elementare delle tradizioni sociali, offende. Reiterato tre volte, è guerra. Io non la saluto più. anzi no, la saluto, per sport.

quante miglia o chilometri fossero non l'ho capito, ma in ore tutto si traduceva in circa tre. tre ore, quattro morti di sonno e due palloni nel sedile di dietro. Esistono due rimedi a questo: un tank di caffè come carriaggi oppure una jam session di pettegolezzi. Siccome il caffè era finito, i pettegolezzi fluirono come fanno le nuvole del cielo di londra. Impetuose, incessanti e bastarde. I pettegolezzi, per loro natura, hanno lo stesso valore dei soldi del monopoli di fronte alla banca d'Inghilterra, è chiaro. Ma sono certo che Diego avrebbe apprezzato la compagnia in quella manciata di chilometri se non nell'argomento almeno nel merito. Credo, d'istinto, che la stessa cosa valesse per Silvia. O forse no...

Qualcuno dice che se ci sono tre inglesi in una piazza vuota dopo un po' si incontrano e si mettono in fila. E' nella loro natura. Come a Napoli la pummarola non si può evitare, così in Inghilterra le file. Noi, da paraculi, alla fila siamo allergici e allo svincolo prendiamo la coda meno trafficata, la corsia meno corretta, e la velocità meno opportuna. Con facce vaghe, non furbe. Riusciamo in dieci minuti quello che un sassone farebbe in 20, un celtico in 25 ed uno svedese in 30. Siamo all'ingresso della pista.

Traghettiamo la macchina fino all'ingresso ultimo del circuito, cinture allacciate davanti e occhi a mezz'asta di dietro. Il nostro doganiere è un giovanotto nero con fare da buttafuori. eravamo in quattro: un pass per la macchina, un pass per manu. E gli altri tre? Ah bello! Siccome non stavamo a pettinare le bambole, grazie all'innocenza cherubina di Manu, entriamo delegando alla macchina dietro di noi l'onere dei pass. Una ferrari nera a seguire ha i pass per tutti. Siamo dentro per lavoro, scusa, siamo in ritardo. Cheers. Ed entriamo.

La folla era una turba di motociclisti, pedoni, imbecilli e italiani. Il prato verde smeraldo faceva intuire due cose: a donnington c'è poca luce e tanta acqua.

Il velo pietoso delle attese millenarie, la mancanza di pass, la strada sconnessa e il rally in fuoriserie me li risparmio perchè sono cose che io ho solo sentito dire. Erano quaranta minuti di vento che stavamo aspettando Diego. Abbiamo persino preso un caffè (credo fosse caffè) e delle ciambelline fritte nel frattanto. Diego, niente. Non arrivava. Ogni tanto arrivavano messaggi sul telefono di Simone che spiegavano l'umore dell'aspettante Diego.

Io ero abbastanza incuriosito dall'evento. In fondo non ero mai stato a un gran premio. Una turba indefinita di gente si muoveva da parte a parte del circuito, si spostava, apriva e chiudeva sedie e ombrelli. Un rombo sulla pista irrompe, un suono annunciava i cinque minuti alla partenza.

Ma che figata! Io Davide e Simone ce ne stavamo gironzolanti affianco al rettilineo di partenza mentre Emanuele, ligio, se ne era andato a lavorare. Diego finalmente, arriva. Può darsi che io mi sia acclimatato meglio alla tempra anglosassone perchè quando è arrivato diego, la mia eccitazione era nulla in confronto alla sua. Non gli sfuggiva nulla. Le moto, il circuito, le moto parcheggiate, le tette delle bamboline bionde, l'estasi di essere lì lo aveva reso bambino. Un bambino dentro la casa di babbo natale il 25 dicembre mattina.

E comincia una catinella di pioggia. La temperatura se ne torna a febbraio e quattro fessi, vestiti a primavera e senza un ombrello se ne vanno a zonzo per il parco delimitato dal circuito. Donnington Castle è sotto assedio dalle piogge.

Otteniamo finalmente dei pass per i paddocks. Attraversiamo il cunicolo sottostante la linea di partenza e ci spostiamo dove sono tutti i camion, gli stand e le moto dei team in gara. Sinceramente mi aspettavo qualcosa di più magnificente ma era un po' come andarsene a spasso a Castellammare di Stabia tra i marmittari e i carburatoristi. L'unica eccezione erano forse le scosciate bambine bionde con gli ombrellini del gran premio e due panterone nere immortalate da Simone per le fantasie di Diego. Ovviamente i colori dei paddocks sono ben più esaltanti di Castellammare. Non voglio sembrare negativo a tutti i costi ma con quello che veniva giù il mio livello di esaltazione stava decisamente scemando. Avevo freddo.


Finalmente riappare Silvia e troviamo riparo in uno degli stand di un Team. Derbi, mi pare. Parte la 125 e le moto del team sono in gara. L'asfalto è un lago nero d'acqua e i motociclisti si perdono in acrobazie che portandoli a terra con tutte le moto li riporta anche ai box, da cui, temo, vedranno la gara come l'abbiamo vista noi. Anonimi e senza premio. Arriva un'altra Silvia. Al seguito aveva quello che non più di dieci minuti più tardi potremmo aver definito più vittima che compagno. Le donne in questo sono maestre nel farlo e nel negarlo. Ma questa è una considerazione nel cui merito non vale neppure entrare: è un assioma universale insindacabile come è vero che 2+2 fa sempre quattro.

Le deroghe alla pioggia sconfinano fino alla fine della gara quando il manipolo da noi costituito si ritrova, ora diviso, nei paddock ancora una volta. Simone e Diego sono andati a controllare i potenziali slittamenti della salita d'erba dove stava parcheggiata la macchina mentre io e Davide ci siam presi un po' d'acqua prima di reclamare anche noi un pranzo.

L'attesa per la partenza delle cinquecento ha visto solo un miserevole pranzo, tanta acqua e lo sconforto del freddo. Ma il momento si avvicina. Le 500cc stanno per partire. Si sente il rombo possente che si avvicina. Usciamo dalla mensa. Il rumore si fa sempre più forte. Era solo un apparecchio EasyJet pronto all'atterraggio. Falso allarme.

Due minuti più tardi il rombo vero. Quello fatto da decine di moto pronte. La linea di partenza è piena, le moto sono in linea e l'eccitazione dei piloti si trasferisce alla moltitudine di spettatori. Il numero 46 si ripete con un disequilibrio barbaro: i tifosi di Valentino Rossi sono in una proporzione di 5 a 1 rispetto agli altri. Sono partiti. Siamo su una delle curve ad aspettare l'arrivo della safety car e delle moto al seguito. Giro di ricognizione. Le moto partono.

Che stronzata. Tutto 'sto casino per vedere un'ammucchiata di moto che fanno una curva a 200 all'ora? Sotto la pioggia e al freddo per giunta. Senza sapere i numeri, perdendosi gli accadimenti nelle altre parti del circuito, senza una mezza cronaca e immersi nel roboante rumore di motori da aviogetto messi su due ruote? Che stronzata. Decisamente sì.

Eppure una stronzata così vale sempre la pena farla. E' diverso. Non è starsene davanti al televisore, o accanto ad una radio. Non è starsene con una birra in mano, al pub a guardare le motociclette piccole piccole. No. E' partecipare in un modo che non comprendo ma che senza meno ho apprezzato. E' stare lì, non tanto per dire io c'ero, quanto per fare un passo, altrimenti impossibile tra il mondo della poltrona e quello oltre al plumbeo vetro del televisore. Girarsi in torno, camminare e vedere. Tutti vogliono vedere, tranne Diego. Quando Valentino ha vinto la gara lui, con nemmeno una parola d'avviso schizza via. Forse lo vedremo sul podio con il suo ombrellone ferrari e il sorriso da bambino. Lui interpreta meglio di tutti il mio pensiero. In un certo qual modo, lui ha vinto la gara.

E torniamo a casa, con una coppa invisibile in mano, con un semicappellino giallo in testa e coi pass ancora al collo. Londra ci aspetta.

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