Mhttk' blog

domenica, luglio 04, 2004

Londra, day two.
Kew Gardens e il Persiano.

La mattina mi sveglio con tutta la fatica necessaria per concentrarmi sulla latidine in cui mi trovo. Il giorno prima avevo aperto gli occhi in quella Casbah che è la mia camera ed ora me ne stavo gongolante nel salotto di "casa Carlo". Un po' a morirmi di freddo un po' a interrogarmi sulla giornata. Ero arrivato fino a Londropoli, le sterline le avevo, digitale nuova di zecca, un dizionario Collins e...

now, what?

Basta con lo sbattimento di suole e tacchi di Oxford Street o delle ammucchiate di Covent Garden, basta con tutte quelle menate da 0,5 km quadrati di Londra. Ne avrei le tasche piene. Io vado a Kew Gardens.

In fondo era sabato, la giornata era splendida e la donna che non ho non mi stava tradendo. Un treno diretto mi poteva trasferire di una venticinque miglia più a sud e forse in mezz'ora di metropolitan transport sarei potuto arrivare al parco.

L'idea di fondo sembrava un po' la scena della carica dei centouno quando il tipo con la pipa va al parco col cane. Insomma, qualcosa di questo tipo.
Crollano le convinzioni ad andare a Londra troppo di frequente. Il treno non funzionava per manutenzione quel week end ed i bus sostitutivi erano un terno a lotto. Alla fine imbrocco il bus e dopo un'ora me ne sto alla stazione della metro precedente alla mia destinazione. Quattro passi e arrivo.

Esco finalmente dalle barriere e mi trovo in Inghilterra, mi trovo in quelle piazzette col pub con l'insegna di legno e con le scritte dorate, con la pasticceria dove in realtà fanno il pane, dei negozi di fiori, una libreria e quattro nubi bianche che volavano in un cielo blu profondo.

Kew Gardens, chissà, magari è come quei parchi del cavolo con l'erba verde, i bambini che strillano e le madri che fumano le sigarette a coppie. Madri dimentiche che quei pargoli pestiferi tra un po' saranno grandi e dimentiche che se non smetteranno di spettegolare per dedicarsi un po' alla progenie se la ritroveranno come sconosciuti perfetti dentro casa. Immaginavo i palloncini gonfi d'elio all'ingresso, le noccioline. Immaginavo un parco con una porta con su scritto "Kew Garden", ed un muro a mattoni tutto attorno. Immaginavo pure tutti gli sfigati col cane che vanno a rimorchiare e tutte le intellettuali col cane che vanno a negarsi ai rimorchiatori essendo, loro, di una razza così superiore che un giorno ci spiegheranno per quale motivo a trent'anni sono già vissute zitelle.

Invece quando arrivo, la scritta Kew Garden c'era ma l'ingresso al parco era in un intorno delle sei o sette sterline che in gergo continentale diremmo una decina d'euro.
Ma insomma, dopo un'ora e mezzo di sbattimenti, sei sterline gliele do, basta che mi facciano entrare.

L'ingresso era simpatico. Con le casse, i bigliettai indiani col turbante verde, i mattoncini, i cordoni per le file, le coppiette di giovani ottantenni, le mappe e l'indicazioni per i bagni. Ladies and Gentlemen. Da noi ci sono gli uomini e le donne: punto. Lì invece i gents possono pisciare nel bagno, tutti gli altri sugli alberi.

Pagato il dazio d'ingresso, dicevo, mi trovo ad attraversare una caffetteria e poi inizio a percorrere il sentiero. La prima delle serre che vedo mi attira immediatamente. Vado verso la porta d'ingresso tagliando con una linea dritta il percorso, il prato e gli altri viottoli. La porta bianca di metallo e vetro era di una pesantezza britannica che ha richiesto uno sforzo enorme, sia mio che di quelli che tentavano di uscire prima che tutti noi ci rendessimo conto del fatto che la porta andava spinta, o tirata, nell'altro verso.

Entrare in una serra significa entrare in un nuovo mondo. Caldo, umido, stranamente silenzioso e verde. Gli spruzzatoi gettavano una polvere di acqua caldissima dall'alto delle arcate del tetto mentre tutto a torno le piante erano di un verde verdissimo e tutte vicine. Qualcuna stava fiorendo mentre le altre, quelle più curiose, erano in uno stato di anomalo letargo. Le piante curiose erano quelle del caffè, che non ho mai visto se non in foto, quella del pane, che magari poteva anche sfornare qualche frutto strano. Le piante di pepe, le palme del madagascar, noci di cocco a forma di culo, fiori grandi come una palla da bowling. Alla fine ho visto una marea di fiori, di piante, di alberi ma non saprei dire nemmeno un nome.

Così, quello, rimane e rimarrà, almeno per me che scrivo, l'edificio delle palme.

Proseguo oltre e mi addentro in un'altra serra ancora più calda di prima. L'ingresso è dominio dei cactus e di altre piante grasse mentre oltre le porte di ferro e vetro una giungla di orchidee di tutti i colori e di tutte le taglie spezzavano il rumore delle cascate coi profumi e con i colori delle loro bocche floreali. Si salivano scale e scalette, in un caldo asfissiante, umidissimo e si percorreva l'equatore da ovest ad est zigzagando per le isole sub tropicali, per i paradisi dove questi fiori mettono le radici in proprio. Dove nascono, vivono, e nascono ancora una volta, prima di morire.

Kew Gardens. Ci ho passato una giornata intera. Da solo, con i miei apparecchi fotografici e con i miei pensieri persi nei pollini dei profumi a me, sin a quel momento, sconosciuti.

Tornando indietro avrei fatto volentieri una capatina a casa, per posare le cose. Ma già ero in ritardo per arrivare a Portobello, nei paraggi della casa di Emanuele. Emanuele se la dormicchiava quel pomeriggio perchè evidentemente la trasferta portoghese non era certo stata una traserta di senile riposo.

Bisogna animarsi di un certo qualcosa di rompino quando si incontrano le persone nel loro mondo abituale, altrimenti si rischia di venir risucchiati nei giri vorticosi delle faccende, delle cose, degli aspetta un attimo e dei poi vediamo. Mi dispiace per Emanuele ma quella sera Carlo aveva da fare, io no e per giunta mi aveva incuriosito un non poco l'ultima volta che lo avevo incontrato a Londra. Col suo kebab di fiducia, con il suo airbag che sta per scoppiare in macchina.

Riusciamo a raggiungere un Pub a Portobello Road dove Emanuele evidentemente doveva aver speso un po' del suo tempo di tanto in tanto e dove non si poteva non chiedere una birra appoggiando gli avambracci sul bancone del bar.

La cena è un tedio. Cenare a Londra significa giocare alla roulette russa dentro un manicomio, con il tifo isterico e con l'improbabile agire degli avversari.

Noi finiamo in un ristorante persiano.
Un persiano col vino che ci siamo portati a mano dal minimarket di mezzo isolato indietro. Preventivamente acquistato per l'occasione.

Persiano. Mah..?..

Bisogna dire che l'idea era vincente, mangiamo a sufficienza, paghiamo il pagabile e beviamo il bevibile. I nomi delle pietanze, dei piatti, e delle salsine. Sono rimaste dentro le quattro mura della stanza come se fossero state strappate dal cervello con subdola violenza nell'atto semplice e necessario di uscire.

Ho mangiato, non so cosa, ma ho mangiato.

Rimaneva da preparare la serata. Gli asset in sterline avevano il loro inesorabile picco verso il basso, sinonimo di un week end denso di cose da fare e sinonimo anche della predizione che nell'imminente futuro un po' di austerity non avrebbe potuto che giovare.

Fa buio più tardi in Inghilterra di questo periodo e dirsi soddisfatti delle luci tutte attorno nella strada significava una cosa sola:

Saturday Night, London City.