Mhttk' blog

lunedì, ottobre 18, 2004

Week end in salita.

Arrivare la sera in arereoporto è già di per sé scomodo, ma arrivare a Stansted la sera è orribile. Bisogna spendere ancora un'oretta prima di arrivare a Londra e se tutto va bene si vede la prima linea della metropolitana, entro quaranta minuti.
La storia in Inghilterra è la solita: pagare biglietto, fare fila, prendere pullman. All over again, and again and again. A pagare bisogna pagare sennò, multa. La fila se non la fai ti urlano appresso. Ci sono due opzioni per prendersi una libertà e passarla liscia: non pagare, fare la fila, prendere il pullman oppure pagare, fare la fila e prendere il pullman.
La morale è molto semplice. L'unica cosa gratis in Inghilterra è fare il coglione, però, se vuoi puoi pagare prima. Visto che ormai io mi dilettavo in questi paradossali ragionamenti einstaniani il pullman appresta Finchley Road stazione sull'omonima strada, linea Jubilee Line. Scendo.
Pago, faccio la fila, prendo la metro.
Nei tempi d'oro mettevo un gettone nel telefono e dopo 15 minuti arrivava Carlo con il suo bolide (anche se lui dichiarava che gliene servivano solo cinque ce ne metteva sempre 15). Credo che anche per lui sia valsa qualche regola inglese. Evidentemente non ha pagato qualcosa oppure non ha fatto abbastanza file, perciò, la macchina l'ha dovuta riportare in patria.
Ogni volta che si aprono le porte e il "mind the gap" si appresta, un grappolo di persone lascia il vagone, e va via. Passi veloci, stanchi a volte, neri coatti o passi turistici e errabondi. Io scendendo strascicavo i piedi con 30 chili di bagaglio sulle scarpe. Dollis Hill station, mind the gapa. This train terminates at Stanmore. This train terminates at Stanmore, please mind the gap, minf the gap please. Pshhhhh...... le porte si chiudono, la metro parte via verso Stanmore, è quasi mezzanotte. Sono solo alla banchina della metro, il vento soffia, le panchine di ghisa nere sono ancora bagnate dal'ultima pioggia. Io esco.
Sabato mattina dovevo proprio farcela, era fondamentale. Il test di inglese è una sofferenza gratuita, e neppure il mio più spiccato senso masochista poteva trarne alcun accento di piacere. Andava fatto, come vanno prese le pasticche per il tifo quando si parte per il campeggio con i lupetti. Una rottura di c***o, e basta.

In quattro ore abbondanti esco, vado via e torno a casa. Stanco si stress da esame più che altro.
Stasera Silvia festeggia gli anni, Saschia (o come si scrive) pure e ci aggreghiamo in numero per un pub dietro Paddington.

Giulia, Andrea, Eros, Germano, Giampiero, Joe, Saschia (ma va?), erano in compagnia di altre e altre persone. Eravamo in tanti.

Cheers, e s'esce ubriachi (chi più, chi meno, io: entrambi).

Domenica si riposa. E basta.


mercoledì, ottobre 13, 2004

Ready to go.




Giovedì, sera verso le sette il mio aereo sarebbe decollato da Ciampino. Era circa mezzodì e non avevo neppure lontanamente finito di preparare la sacca laterale del bagaglio a mano. La valigia pesante me l'ero lasciata per ultima, ancora non sapevo quale sarebbe stata.

Tutto mi dovevo portare via, tutto. Le cose che mi sarei messo e le cose che avrei voluto tenere nell'armadio in modo che un giorno all'altro me le possa mettere. Mi servivano i libri, tonnellate di libri. Anzi no, i libri pesano. Mi serviva il passaporto. Il passaporto, dove diavolo sarà finito il passaporto? Vabbè. La patente, ah sì, la patente... scade l'estate prossima, me la porto, visto mai dovessi guidare in Inghilterra. I soldi, sì, i soldi, la carta di credito, la carta di debito (qui il bancomat lo chiamano in questa maniera), cos'altro? Un orologio. Un orologio no, non lo uso. Tanto il tempo che io lo guardi o meno ce la fa da solo a fregarmi i minuti dalle tasche.

Ed è vero perchè ormai sono le due passate. Vediamo un po'... camice. Un paio. Magliette... un po'. Quattro maglioni non mi entrano, facciamo tre. Le scarpe, sì, le ho messe...
Ah, asciugamani, lenzuola, una coperta! Non vado in albergo, no, devo andarmene a casa da solo.
Ma dove li prendo questi accessori civili ora? Dove sonoooooooo?

Intanto le geometrie della borsa si modificano strane e storte, si aggrumano, si disfano e poi si rifanno. Il peso, la valigia deve contenere tutto ma non eccedere il peso... quant'é il peso permesso? Vabbè. Sono le tre e mezza. Tra tre ore cambio nazione e devo finire la valigia.

Qualcuno ha visto il mio passaporto? Il mio urlo echeggia tre volte la casa, poi cessa e mia madre, come suo solito, mi ricorda di quanto sono disordinato. Ed io, come al solito, mi incazzo che me lo ricorda quando non me ne frega niente saperlo. Lo so da me. Io sono disordinato, esattamente come la terra è una sfera, la calamita ha due poli e i polli non possono volare. E' la natura che lo vuole, inutile opporsi. In principio fu il caos, e da me, diciamo così, sono ancora agli inizi.

Il bagaglio a mano era la mia ossessione. Avevo tonnelate di tecnologia da portarmi appresso. E non ne potevo fare a meno. Sono già le cinque e non ho deciso se portarmi o non portarmi il mouse. Il passaporto era sotto la cartina di Bangkok, appoggiata sulla libreria. I soldi, la clip d'argento per tenere le fascette di sterline come fanno i mafiosi, forse un ombrello. No. Un ombrello non mi è neppure venuto in mente. Lo vorrei ora che scrivo.

Non si sa mai è un motto, non una considerazione: un paio di panini me li porto.

Le lamette per la barba, l'acqua, qualcosa per Carlo, un libro, le foto di mamma, papà, nonna, le sorelle, il cane. No. Niente foto, mica me li dimentico. (...) Non posso fare l'italiano da film pizza e mandolino, non si può fare. Cerchiamo di mantenere contegno europeo, per diamine. Sono le sei passate da quaranta minuti, dobbiamo uscire per l'aereporto.

Arrivati all'aereoporto mi rendo conto che Ciampino è un aereporto del cavolo. Per destinazioni e itinerari importanti non si può partire da un aereoporto così pop, così scemo. Entrata, check-in e imbarco sono a tre metri l'uno dall'altro. Non c'è la storia del parcheggio impossibile, la doppiafila col vigile incazzato, i tabelloni che non si capisce a quale check in si debba andare, è così piccolo Ciampino che se fanno uno sciopero l'intero aereoporto potrebbe funzionare con le biglietterie self service.

In questa atmosfera mi tocca partire. Per giunta mia madre stava cominciando con le raccomandazioni, mio padre faceva finta che mamma non m'avesse detto che era più dispiaciuto lui che altri e io ormai dovevo andare, dovevo andare via.

Mamma, Papà, ciao.

Finalmente sull'aereo mi ricordo di quelle tre o quattro migliaia di cose che dovevo fare prima di partire, e che farò, un giorno o l'altro quando torno. In fondo vado a tre ore d'aereo da casa. Da questo punto di vista se andassi a vivere a Firenze sarebbe la stessa cosa. Tre ore da casa, cinquanta euro di benzine e autostrade, grosso modo.

Dell'aereo non mi viene nulla da dire. Non parlavo con nessuno, non volevo. Non sapevo a quale punto del viaggio avrei dovuto cambiare lingua, in quale momento avrei dovuto usare l'inglese, quando, io non lo sapevo proprio. Arrivato a Stansted, un aereoporto a dieci minuti da Edimburgo ma a un'ora e mezza da Londra, il freddo cucinava quelle microgocce di brit-pioggia che mi danno un caloroso benvenuto.

Mò, so' cazzi. Mi è venuto in mente solo questo.

martedì, ottobre 12, 2004

Appunti di viaggio, premessa


Si potrebbero chiamare così. Appunti di viaggio oppure appunti e basta. Lascio la mia stanza con un casino consueto per i miei modi di vivere, la scrivania inondata di cose, utili, inutili, impossibili e sceme, lascio gli armadi con le ante aperte per metà come a voler indicare che la mia partenza riguarda mezza giornata, un tramonto al massimo.

Ma non è proprio in questa maniera che le cose funzionano. Nel mio visionare confuso, il disordine è l'unico punto su cui posso contare, l'unico punto fisso. Concettualmente è un po' come cercare di prendere ad esempio il fumo della sigaretta per indicare una sfumatura di grigio. Se mi fosse chiesto di raccontare precisamente per quale motivo Londra e per quale motivo oggi, io non saprei dare più che una risposta vaga e nascosta. Mi limiterei a dare una descrizione fatta della stessa essenza del colore grigio di cui dicevo prima e della stessa logica del disordine in cui galleggio.

Come d'altro canto non ho mai saputo per quale motivo ho fatto l'università o per quale motivo ogni mattina mi innamoro sempre degli stessi occhi. Forse l'ottanta per cento delle cose che ho fatto e che meglio di tutte mi possono raccontare, non le capisco io per primo, figuriamoci a trarne spiegazioni per gli altri. Così, aiutato da qualche frase più lunga del solito, distolgo l'attenzione dalla domanda e invece parlo di Londra com'é, come la immagino e come vorrei che fosse. Questo è quanto basta a convincere che sia tutto ok, che la spiegazione è sufficientemente chiara e che d'altro canto era inevitabile.

A Londra ci dovevo venire.

sabato, ottobre 02, 2004

London suburbs

E' così.

Sono arrivato in questa città accarezzato da gocce di pioggerellina, scosso dal freddo da autunno inoltrato e poi corso a destra e manca. New Regent Street, Westminster University sabato. Domenica a spasso nel sonno e Lunedì di nuovo all'Università, ma ora a Harrow.

Il campus ad Harrow è un po' come nei film americani a cui ci siamo abituati. Coi dormitori, con il prato verde e con l'ingresso in ordine. Il mio colloquio è andato liscio come l'olio e l'olio m'ha unto fino ai piedi che mi sono ritrovato ad una lezione di Business qualchecosa non meno di due ore più tardi.

Ah, se mi fermassi a parlare di cosa è una lezione qui in Inghilterra farei ridere qualche amante dei baronati italioti o forse solo dispiacere quelli che a stare in quindici in classe non se lo sono sognato nemmeno al liceo.

Ma non questo è il punto. Il punto è che mi sto affaccendando nel cercare una casa prima che Carlo mi sbatta via dalla sua con il tagliando del non ritorno. Eh, già. Oggi agenda colma.

Ho cercato a Notting Hill, ma nulla per le mie povere tasche (insomma 1800 euro al mese per una stanza mi sembrava un po' eccessivo), nulla a Portobello o nella West Central, Nulla a Knightsbridge o Kenington, Bayswater o whatsoever.

Sono stato a Wimledon o giù di lì, ma diamine, lontano, lontano dall'università. Oggi ci facciamo un bel giro. Wembley, Harrow e, come diavolo si chiama? Ah, sì, non mi ricordo. Forse è così lontano dal centro di Londra che è già Scozia lissù, l'ultima sulla linea nera. Tra Edgware e Cannon park.

La signora sembrava simpatica.

Per ora piove solo nei minuti dispari, e questa mi sembra una cosa molto buona.